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La leggenda del privilegio del "primo proponente"

Marco Nebiolo • ott 13, 2020

L'agente immobiliare può raccogliere contemporaneamente plurime proposte d'acquisto sullo stesso immobile?

Chi sottoscrive per primo una proposta d’acquisto immobiliare ha diritto a essere privilegiato rispetto ad eventuali concorrenti? Molti aspiranti acquirenti ne sono convinti e rivendicano una sorta di “diritto di trattare in esclusiva” acquisito in virtù del proprio tempismo. Non è raro sentirsi domandare: “Ma se firmo la proposta lei sospende le visite vero?” Oppure: “Se faccio un’offerta per primo non ne può ricevere altre, giusto?”.

Tali convinzioni sono indotte talvolta dagli agenti immobiliari, che per incentivare il potenziale – e magari titubante… – acquirente, millantano l’esistenza di tale diritto a suo favore, a cui corrisponderebbe un fantomatico obbligo deontologico del mediatore di non raccogliere altre proposte fino a negoziazione conclusa.

Chiariamo subito che questo scenario legale non ha fondamento.

Primo: nessuna norma stabilisce un obbligo di trattativa unilaterale con il primo proponente per il proprietario, né  un corrispettivo diritto del primo proponente a negoziare in esclusiva. Ricordiamo che, nonostante i mille limiti che il nostro ordinamento prevede per il diritto di proprietà, ex art. 832 cc il proprietario ha il diritto di disporre della cosa in modo “pieno ed esclusivo”. Cioè il proprietario del bene fa grosso modo ciò che vuole e né i potenziali acquirenti né il mediatore immobiliare possono limitare tale potere.

Secondo: sotto il profilo deontologico non esiste norma che imponga al mediatore di non raccogliere ulteriori proposte d’acquisto dopo aver raccolto la prima. Al contrario per evitare di condizionare il venditore nascondendo eventuali ulteriori opportunità di mercato l’agente immobiliare è tenuto a portare a conoscenza del venditore tutte le proposte disponibili, consentendogli in questo modo una scelta davvero libera, nel proprio esclusivo interesse. Questa norma è prevista, per esempio, nei codici deontologici della Fimaa e della Fiaip (associazioni di categoria private, vincolanti solo per gli associati e sanzionabili quindi solo sotto il profilo dei diritti sociali dell’associato reprobo. Riservo ad altra occasione considerazioni relative all’inesistenza nel nostro sistema normativo di un vero codice deontologico vincolante per i mediatori immobiliari, non esistendo un Ordine che vigili sulla sua applicazione né un Albo dei mediatori da cui essere eventualmente espulsi).

Un eventuale divieto “deontologico” di raccogliere più proposte del resto sarebbe in contrasto con lo statuto codicistico della professione. Il mediatore che nascondesse al venditore la presenza di altri possibili acquirenti e che si prodigasse per la conclusione con il primo offerente senza aver approfondito i termini di ulteriori proposte violerebbe l’obbligo giuridico informazione previsto dal codice civile: ex art. 1759 cc il mediatore è infatti tenuto a comunicare alle parti “le circostanze a lui note circa la valutazione e la sicurezza dell’affare”. L’esistenza di controfferte migliorative è un circostanza di assoluto rilievo, potenzialmente determinante nel processo decisionale del proprietario: se il mediatore nascondesse al venditore delle opportunità e il proprietario ne venisse successivamente al corrente potrebbe rivalersi nei suoi confronti per il risarcimento del danno subito.

La competizione tra acquirenti: una "grana" che i più vogliono evitarsi

Il punto è che spesso questa norma “deontologica” rimane sulla carta perché gli agenti immobiliari preferiscono evitare di raccogliere più proposte d’acquisto in contemporanea per il medesimo immobile. Per una ragione molto semplice: per il mediatore è più semplice e meno oneroso gestire una singola trattativa piuttosto che una molteplicità di proposte. Gestire più potenziali compratori seriamente interessati aumenta il carico di lavoro e di stress (è possibile che chi non si aggiudicherà l’immobile rimarrà deluso e scaricherà sul mediatore la sua frustrazione), senza determinare un corrispettivo aumento degli introiti. Per questo motivo molti, dietro il paravento di altisonanti quanto inesistenti vincoli etici, nascondono un ragionamento molto più utilitaristico: ”e chi me lo fa fare”.

Una modalità operativa che ovviamente penalizza l’interesse del proprietario a vendere al miglior offerente.

L’importanza del rapporto di fiducia venditore-mediatore

Sotto questo profilo emerge chiaro quanto sia importante per il venditore scegliere un agente immobiliare di assoluta fiducia. Il dubbio che l’unica proposta presentata, magari pesantemente ribassata, sia presentata come “la migliore possibile” più per interesse della controparte e del mediatore stesso che per una reale contingenza di mercato può sorgere legittimamente quando il legame tra proprietario e professionista non sia più che solido.

Il rischio massimo si configura quando il venditore affida l’incarico ad agenti pagati solo da parte acquirente: i famosi incarichi di vendita a provvigioni zero, che tanto vanno di moda negli ultimi anni, specie tra le agenzie online, ma non solo. Incarichi che piacciono molto a una certa tipologia di venditori, perché li illudono di risparmiare la provvigione (quando invece questa ricade sempre sul venditore: vedi post relativo); e che sono accettati da molti agenti immobiliari perché facili da acquisire (chi non ha servizi efficaci da offrire, per essere competitivo può solo rinunciare al/o ridurre il proprio compenso). In questo caso il mediatore sarà naturalmente indotto a favorire gli interessi dell’acquirente - l’unico che lo paga - in particolare di quel compratore che gli prometterà la provvigione più alta, non le condizioni migliori per il venditore. Certamente non avrà alcun incentivo di sobbarcarsi un carico di lavoro aggiuntivo per ottenere il miglior risultato a favore di una parte che non riconosce il valore del suo lavoro. Così, non pagando la provvigione e illudendosi di risparmiare, il venditore si troverà ad accettare una proposta più bassa di quelle potenzialmente ottenibili, senza neppure rendersene conto.

Questi problemi certamente non si pongono quando il venditore sceglie un consulente immobiliare che paga unilateralmente, in via esclusiva: in questo caso il rapporto di fiducia strettissima che lega incaricante e incaricato, e la congrua promessa di pagamento che ne deriva, vincola quest’ultimo a trovare la migliore soluzione possibile per il suo referente; inoltre nessuna sirena del compratore può indurre il professionista a condizionare la trattativa a suo vantaggio, vista che l’intera retribuzione proviene dal venditore.

Personalmente promuovo tra i miei clienti venditori, sia quando opero come consulente di parte sia quando opero come mediatore tradizionale, l’importanza di organizzare il processo di vendita in modo da ottenere più di una proposta d'acquisto. Non solo perché la concorrenza tra acquirenti è strumento utile ad individuare il cliente più motivato, disponibile a formulare l'offerta più conforme ai desideri del venditore; ma soprattutto perché consente al venditore un scelta libera tra proposte diverse per prezzo, tempistiche, garanzie offerte: tutti aspetti importanti nella valutazione complessiva del miglior offerente e che possono essere ponderati differentemente a seconda della personale sensibilità del proprietario.

Infine un aspetto di non secondaria importanza: la possibilità di scegliere tra più proposte, prova tangibile del buon lavoro fatto dal consulente/mediatore, è l'unico vero antidoto contro quel timore che spesso avvelena la coscienza del venditore alla fine della trattativa: quello di aver "svenduto" l'immobile. Di fronte a plurime proposte questa paura ancestrale svanisce, fugata dalla consapevolezza di aver potuto sondare il mercato nel modo più approfondito e completo.


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Autore: Marco Nebiolo 04 feb, 2022
Perché scegliere un agente in base al costo della commissione è un pessimo affare per chi vende immobili
Autore: Marco Nebiolo 14 nov, 2020
Il tuo professionista di fiducia ti ha fornito la valutazione dell’alloggio che intendi vendere. Se non hai un agente/consulente di riferimento probabilmente hai chiesto più valutazioni e alla fine ne hai scelto una (spero per te in base alla credibilità dell’agente, non al valore assoluto proposto!). Ora si pone un problema: qual è la più efficace strategia per ottenere il miglior prezzo? Ipotizzando l’immobile valga, secondo il tuo consulente, tra 280.000 e 300.000 euro, a che prezzo è conveniente metterlo in vendita? 300.000 euro? 350.000? 280.000? La risposta non è banale come molti credono. Dipende. In particolare da 2 fattori: dalle reali esigenze del venditore e dalle caratteristiche dell’immobile. Aspettando Godot… o meglio “l’amatore” Il 95% per cento dei clienti/venditori ha una convinzione granitica: per ottenere il massimo si deve chiedere la cifra più alta possibile e poi, eventualmente, cedere qualcosa durante la trattativa. Se il valore della casa è intorno ai 300.000 mila euro, chiediamone almeno (almeno!) 350.000 e poi vediamo che succede. Basta scorrere gli annunci dei principali portali immobiliari per constatare che questa è la via prediletta. La stragrande maggioranza degli immobili è pubblicizzata a un prezzo che si discosta del 10/20% dal valore reale, come si può evincere dal confronto con i prezzi reali ottenuti al termine delle trattative. Il presupposto principale di tale impostazione è la convinzione che l’acquirente voglia per forza, si potrebbe dire “di default”, formulare una proposta al ribasso, almeno del 10-15%. Quindi se il prezzo di offerta coincidesse con quello di valutazione, si riceverebbero necessariamente offerte inferiori: chiedi 300.000, otterrai offerte tra 250.000/270.000. La speranza più o meno recondita che anima questi venditori è che bussi alla porta del proprio agente una figura mitologica nel mondo dell’immobiliare: quella dell’”amatore”. L’amatore sta al mercato immobiliare come Bigfoot sta alle foreste del nord America; o come “ l’abominevole uomo delle nevi ” alle alture dell’Himalaya. Pullulano aneddoti e le leggende, ogni tanto salta fuori qualche traccia, qualche video farlocco, ma nessuno lo incontra mai. Eppure il loro mito persiste. L’amatore, nei sogni del venditore, è un acquirente completamente dissennato, che visionando un alloggio assolutamente ordinario, in un condominio normale, rifinito con finiture di qualità media, “si innamora” proprio della graniglia di quel tinello, della carta da parati di quella camera da letto, delle piastrelle azzurre di quel bagno. L’amatore, secondo il venditore “romantico”, per accaparrarsi questo alloggio - del tutto simile a decine di altri immobili siti nel raggio di 500 metri - è disposto a pagare migliaia e migliaia di euro in più del valore di mercato, perché ci vede qualcosa che gli altri non vedono. L’amatore è visionario… L’amatore è generoso… E’ evidente che un compratore così, specie nell’era di internet in cui le informazioni sono accessibili a tutti con estrema facilità, è del tutto immaginario. Eppure molti giurano che esista e lo vedono un po’ dappertutto: nel cliente gentile che, per buona educazione, durante la visita si complimenta per le condizioni dell’appartamento; lo scorgono nel racconto dell’amico che gli narra di quel compratore che, secondo una confidenza della portinaia, che lo avrebbe saputo da una parente, ha venduto proprio in zona a un cifra sideralmente più elevata di quella prospettata dal suo professionista. Questa convinzione e questa speranza determinano un circolo vizioso : i venditori meno esperti si convincono che i valori di mercato siano quelli che vedono prevalere sui portali immobiliari; gli agenti immobiliari si scontrano quotidianamente con questi pregiudizi dei venditori, che faticano a scardinare; molti agenti scelgono così – denunciando scarsa professionalità – di “drogare le valutazioni immobiliari” per assecondare i desiderata dei venditori e ottenere più facilmente l’incarico, sperando poi in ribassi successivi. Effetto boomerang: amatore che cerchi... speculatore che trovi Personalmente sconsiglio sempre questa strategia, che può essere del tutto controproducente. Per questa tipologia di immobili, infatti, il processo di acquisto è prevalentemente razionale, è più è razionale l’offerta, più fruttuosa sarà la trattativa. Se l’immobile in vendita è un appartamento di dimensioni medie, in uno stabile medio, in un quartiere densamente popolato, costituito da numerose palazzine con caratteristiche simili, la valutazione dell’immobile si può effettuare in termini molto stringenti: il prezzo di vendita si collocherà con grande precisione all’interno del range di valori determinato dall’agente immobiliare serio e competente. Se la forbice prevista è tra 280.000/300.000 euro, proporre in vendita l’appartamento a 350.000 conferisce un’immagine di poca serietà e credibilità sia al venditore sia la consulente incaricato, indebolendolo in fase di gestione della trattativa. Le visite saranno scarse. Le proposte eventualmente ricevute saranno pesantemente ribassate (“se ci prova il venditore, ci provo anch’io” penserà l’acquirente). Risultato: tempi di vendita allungati, immobile fermo in vetrina per mesi, con il rischio che si bruci, perdendo qualunque appeal agli occhi degli acquirenti. Una strategia che servirà solo favorire vendita dei concorrenti che avranno proposto prezzi più ragionevoli, e che potranno mettere in evidenza la convenienza della propria offerta. Al posto dell’amatore si farà viva la figura molto più concreta dello speculatore: quello che senza peli sulla lingua non esiterà a dire cosa pensa della graniglia del tinello, della carta da parati della camera e delle piastrelle azzurre dl bagno. Che non esiterà a evidenziare di essere consapevole dell’inutilità dei tentativi di vendita sin lì esperiti. Per immobili senza specificità particolari, cioè di fatto fungibili, gonfiare il prezzo espone al rischio concreto di un effetto boomerang. Molto meglio proporre l’immobile al prezzo reale, magari collocato nella parte alta della forbice proposta dal consulente, mettendo subito in evidenza, ictu oculi , la convenienza della propria proposta rispetto ai concorrenti. Sarà cura dell’agente incaricato spiegare ai potenziali acquirenti che su tale immobile la trattativa è risicata o nulla, in quanto il valore richiesto rispecchia oggettivamente il valore di mercato. Il buon professionista ha gli argomenti tecnici e commerciali per sostenere la sua tesi. E di fronte a dati reali oggettivi, qualunque acquirente realmente interessato, non può che prendere atto della correttezza della richiesta e rinunciare a pretese ribassiste infondate. Immobili infungibili: tutta un’altra musica Scrivevo all’inizio di questo post che la scelta commerciale del prezzo di offerta dipende però da due fattori: le caratteristiche dell’immobile e le esigenze del venditore. Quando l’immobile ha caratteristiche molto particolari, o addirittura uniche (panoramicità, valore storico, soluzioni architettoniche di elevato standing, geolocalizzazione privilegiata etc.) i parametri di valutazione del consulente si fanno più incerti: diminuisce il numero di immobili comparabili su cui fondare le proprie previsioni e di dati disponibili; cresce l’incidenza del fattore emozionale nel processo decisionale dell’acquirente. In questi casi il consulente deve appellarsi alla propria esperienza e alla propria sensibilità per individuare il più realistico valore di mercato. Il fattore umano diventa indispensabile e insostituibile. L’intelligenza del consulente , intesa come capacità di comprendere le potenzialità attrattive nei confronti di target specifici, diventa un fattore decisivo. In questi casi, d’accordo con il venditore, può essere prudente proporre l’immobile a un valore leggermente superiore al range ipotizzato, perché la speranza di intercettare clienti disponibili a spendere qualcosa in più per entrare in possesso di un oggetto raro ha questa volta un fondamento concreto e razionale. In questi frangenti, se il prezzo ipotizzato rimane naturalmente in una ambito di ragionevolezza e realismo, non è insolito che si crei addirittura un’asta al rialzo tra potenziali acquirenti: il meccanismo psicologico che s’innesca è infatti simile a quello che si genera di fronte a oggetti d’arte o da collezione. Il desiderio di possedere qualcosa di unico o raro può far deragliare il processo decisionale dai canoni esclusivi della razionalità, specie se il professionista incaricato della vendita ha la capacità di valorizzare nel modo opportuno le caratteristiche più evocative dell’immobile proposto. L'incidenza della variabile "tempo" Se il proprietario ha l’esigenza di vendere sì a valori di mercato, ma in tempi rapidi e ragionevolmente certi, il prezzo di vendita va scelto in modo ancora diverso, applicando una strategia opposta a quelle sin qui enucleate. Le motivazioni per cui il tempo diventa un fattore determinante possono essere molteplici: questioni fiscali, esigenze lavorative improvvise, questioni familiari etc. In questi casi il venditore ha l’esigenza di vendere al miglior prezzo possibile in relazione al tempo che ha a disposizione. Tornando al solito esempio dell’alloggio il cui valore è compreso tra € 280.000 e € 300.000, in questo caso il migliore prezzo di offerta potrebbe rivelarsi essere proprio € 280.000, cioè il valore basso della forbice, specificando chiaramente con i potenziali acquirenti che si tratta della cifra “minima” che si può offrire, cioè una sorta di “base d’asta”. Strada completamente sbarrata quindi a chiunque voglia imbastire trattative che abbiano ad oggetto un prezzo ribassato. Benché il prezzo offerto sia comunque all’interno di una forbice di mercato, è probabile che in breve si crei un notevole interesse sull’immobile: i venditori di appartamenti simili, legati alla strategia di vendita ordinaria fondata su un prezzo di offerta gonfiato, saranno infatti sul mercato cifre notevolmente più alte e l’appetibilità di un’offerta a € 280.000 salterà agli occhi immediatamente. In tale condizione è probabile che più acquirenti provino a formulare offerte per accaparrarsi quella che apparirà ai loro occhi come una evidente “un’occasione”. Vincerà naturalmente chi formulerà l’offerta migliore. In questo modo non solo l’esigenza primaria di vendere in tempi ragionevoli e a prezzo di mercato sarà rispettata ma è possibile che la competizione tra potenziali acquirenti porti a un significativo miglioramento del prezzo finale ottenuto.
Autore: Marco Nebiolo 10 set, 2020
La prima domanda che un proprietario intenzionato a vendere casa dovrebbe rivolgere all’agente immobiliare è: “Lei è disposto a collaborare con i colleghi di altre agenzie?”. Se la risposta è NO il mio consiglio è di chiudere la discussione e di rivolgersi a gambe levate a qualcun altro. La disponibilità a collaborare - reale, concreta, verificabile; realizzata tramite strumenti tecnologici ad hoc - non è infatti un aspetto secondario di valutazione della qualità dei servizi offerti, ma un vero e proprio discrimine tra modi contrapposti di concepire la professione. Ma cos’è la collaborazione tra agenti? Un metodo operativo che favorisce la conclusione dell’affare grazie all’intervento di (almeno) due professionisti: uno che cura gli interessi del venditore, l’altro quelli del compratore. In pratica funziona così: l’agente del venditore può trovare un acquirente sia direttamente, grazie alle proprie attività di marketing e di ricerca, sia grazie all’intervento di altre agenzie che, non avendo potuto soddisfare il cliente tramite la propria banca dati, si rivolgono ad altri colleghi per offrire ulteriori opportunità di scelta. A livello provvigionale tale attività non ha costi aggiuntivi per i clienti visto che acquirente e venditore pagano sempre la stessa commissione, ciascuno al proprio agente di fiducia. I due agenti possono concordare anche divisioni interne diverse del monte provvigionale (per esempio l’agente del venditore può chiedere un piccolo storno all’agente dell’acquirente), che comunque non incidono sull’importo complessivo pagato dai clienti. Appare evidente che la collaborazione tra agenti immobiliari è uno strumento straordinario di accelerazione dei tempi di vendita e un moltiplicatore di opportunità. Se il venditore si affida a un consulente immobiliare aperto alla collaborazione è come se incaricasse contemporaneamente decine di altri professionisti che possono intervenire nella vendita. L’equazione è di una semplicità disarmante: più agenti lavorano (con i propri strumenti, le proprie banche date, i propri siti etc.), più contatti arriveranno, migliori saranno risultati. Le agenzie più avanzate utilizzano delle piattaforme digitali per facilitare le operazioni di condivisione: si chiamano MLS (multiservice listing service) e permettono di incrociare rapidamente le liste di immobili condivisi con le banche dati delle richieste degli acquirenti. Il sistema è nato negli Usa ed è approdato nel nostro Paese negli anni 90. Tali piattaforme sono tuttavia ancora poco diffuse e, purtroppo, spesso male utilizzate. Non mancano eccezioni virtuose naturalmente: a Torino, per esempio, è attiva da oltre 20 anni la piattaforma MLS del Gruppo UNICA ( www.unicaimmobili.com ), molto efficiente grazie all’omogeneità degli standard operativi delle società aderenti. I proprietari di immobili spesso ignorano tutto questo. Non sanno che in Italia la maggioranza degli agenti immobiliari rifiuta di collaborare. Non immaginano che il professionista scelto possa mettere in campo pratiche di fatto contrarie ai loro interessi, in funzione di una politica imprenditoriale esplicita e - ahimè - consapevole. Non possono sapere che, a fronte di una telefonata di un collega che chiede di far visionare l’immobile a un proprio cliente potenzialmente interessato, questi agenti non collaborativi rispondono (più o meno educatamente...): “Non se ne parla”. Questo cortocircuito si verifica per un a sola ragione: i più non intendono rinunciare al dogma della doppia provvigione . I detentori degli incarichi, per tutelare il proprio interesse personale, dicono quindi NO ai clienti altrui, privando il proprio principale cliente, il venditore - quello che li ha scelti e per il quale lavorano 3/6 mesi, a volte uno o più anni - di un numero idefinito di potenziali opportunità. Solo per difendere la pienezza della propria commissione. “ L’incarico e mio e lo gestisco io ” dicono alcuni, come se gli interessi del proprietario fossero “cosa loro”, di cui disporre arbitrariamente. “ Fammi chiamare dal tuo cliente ” sibilano sbeffeggianti altri, quasi compiaciuti di una rozzezza professionale che danneggia l’immagine di un’intera categoria e rende ontologicamente infungibili le loro prestazioni con quelle di chi mette al centro della propria azione il cliente e la sua soddisfazione. Un moto esclusivamente egoistico induce ad anteporre nel breve termine i propri interessi (la provvigione bilaterale piena) a quelli del venditore (vendere, al miglior prezzo, possibilmente rapidamente). Ma il calcolo è palesemente miope per due fondamentali ragioni: - non considera che la collaborazione è una strada a doppio senso : grazie alla collaborazione è possibile concludere un numero più elevato di operazioni (le proprie - più rapidamente - a cui si sommano le opportunità derivanti dall’utilizzo della banca data altrui). La riduzione di provvigione sulla singola operazione è quindi bilanciata dal maggior numero di vendite e dalla possibilità di effettuare affari su immobili non direttamente acquisiti; - non considera che la maggior soddisfazione del venditore garantisce un passaparola positivo che farà da volano ad altre operazioni. L’agente non collaborativo priva quindi il proprio cliente di potenziali opportunità che per lui potrebbero fare la differenza. Si espone inoltre alla pratica antica e (sgradevole) dello “scavalco”. Non tiene conto del fatto che infatti da un punto di vista contrattuale la sua pretesa di considerare l’incarico come “ cosa propria ” è del tutto inconsistente: se l’agente dell’acquirente a cui è stata rifiutata la collaborazione contattasse direttamente il venditore e questi scoprisse quindi l’attività ostativa del “suo agente”, il proprietario potrebbe comunque concludere l’affare con l’agente dell’acquirente, liberandosi del “suo agente” con il pagamento di una semplice penale, che è sempre inferiore alla provvigione piena. L’agente “egoista” si ritroverebbe quindi “cornuto” (perché il suo venditore ha concluso l’affare con il collega) e “mazziato” (sia perché intasca una somma decurtata a titolo di penale invece che la provvigione piena; sia perché la sua credibilità agli occhi del venditore è definitivamente perduta). Certo, in alcuni casi sono i venditori stessi che pongono i presupposti di tali comportamenti non virtuosi: quelli che non pagano provvigioni o pagano provvigioni bassissime, pensando di essere più scaltri degli altri, rendono impossibile all’agente collaborare, perché per lui vorrebbe dire lavorare gratis. Quindi questi proprietari non solo si espongono al rischio che il "proprio" agente faccia gli interessi dell’acquirente (che invece gli paga la provvigione piena) e non i suoi ( vedi post dedicato ), ma perdono le opportunità che deriverebbero da una sana e trasparente collaborazione tra agenti. Sta dunque al venditore scegliere a quale tipo di professionista affidare il proprio patrimonio, nella consapevolezza che gli agenti non sono tutti uguali e che un servizio all’avanguardia volto alla migliore valorizzazione rappresenta un investimento, mentre un servizio scadente sarà sempre e solo un puro costo.
Autore: Marco Nebiolo 25 ago, 2020
I Torinesi proprietari di immobili residenziali destinati alla locazione, magari già sfitti perché fino a marzo occupati da studenti o turisti oggi evaporati nel nulla, oppure di immobili a destinazione commerciale, è meglio che si preparino a un autunno complicato , per molti addirittura tempestoso. L’incertezza economica legata alla pandemia preannuncia infatti tempi difficili per chi aveva tarato le proprie previsioni reddituali sugli scenari pre-Covid. E se è vero che i connotati della crisi sono per molti versi inediti, rendendo inadeguato ogni confronto con altri periodi di contrazione vissuti negli ultimi 80 anni, e quindi di fatto aleatoria qualunque previsione, è un dato indiscutibile che l ’incertezza di per sé rappresenti una fattore negativo per l’economia e quindi per la redditività del patrimonio immobiliare , specie in una città come Torino, che da anni vive una complicata fase di ridefinizione della propria identità economica, politica e sociale. Tre sono i settori di prevedibile sofferenza nel breve periodo: le locazioni per studenti, le locazioni per turisti, le locazioni commerciali. Secondo immobiliare.it nel capoluogo piemontese il 50% degli studenti fuori sede non tornerà tra settembre e ottobre , alla ripresa delle lezioni. Mancheranno all’appello quindi circa 20.000 universitari, che preferiranno attendere l’evoluzione degli eventi, sfruttando le opportunità della didattica online restando a casa di mamma e papà. Ne consegue che raddoppieranno le camere disponibili (+108%). Una marea di stanze sfitte destinate a rimanere tali a tempo indefinito. A questo dato è necessario aggiungere il crollo verticale del turismo , che si ripercuote in particolare sugli alloggi siti in zona Centro destinati a locazioni brevi o brevissime, spesso frutto di investimenti in ingenti ristrutturazioni realizzate negli anni scorsi per renderli a appetibili a visitatori stranieri, cavalcando la moda, a mio parere sopravvalutata, degli affitti modello Airbnb. A Torino, Confesercenti stima un calo di oltre 800 mila presenze nel 2020 e un crollo della spesa legata al turismo pari a 186 milioni di euro. La combinazione di questi due fattori in ambito residenziale, in una città che perde abitanti ininterrottamente da anni (500 abitanti in meno ogni mese negli ultimi 5 anni secondo la Fondazione Agnelli ) determina un sensibile aumento di offerta e un corrispettivo calo della domanda. Lapalissiana la conseguente ricaduta sui canoni di locazione, che non potranno che diminuire. Non migliore lo scenario delle attività commerciali su strada, che risentono del minor traffico di consumatori legato allo smart working (in particolare bar e ristoranti, etc), e degli uffici, visto che le società commerciali potrebbero optare per un ridimensionamento degli spazi, sempre come conseguenza delle nuove forme di lavoro flessibile e delocalizzato a casa dei lavoratori. A fronte di tale scenario critico, la soluzione esiste , ma esige l’elaborazione e la rapida applicazione di una strategia ad hoc, che dovrà fondarsi inevitabilmente su: - presa d'atto della realtà; - correzione del target di riferimento, con eventuale messa in conto di piccoli adattamenti dell’immobile (strutturali o solo di arredamento, ove necessari); - più severa analisi delle garanzie richieste al conduttore, a fronte delle quali considerare con pragmatismo l’eventuale riduzione della redditività nel breve periodo (compensata almeno in parte dai vantaggi fiscali previsti dalla legge). Infine, in considerazione del prevedibile aumento del rischio locativo , legato alla sofferenza occupazionale dovuta dalla contrazione della produzione (Pil -11,2% nel 2020 secondo la Commissione Europea) , va inoltre verificata adeguatamente l'alternativa della vendita mentre i prezzi ancora si mantengono in linea con i valori pre-pandemia. Secondo l’ ufficio studi di Nomisma , Torino vedrà crollare di quasi il 10% il valore dei suoi appartamenti nei prossimi tre anni. “Ci sarà una resistenza dei prezzi per un paio di mesi ma poi stimiamo un calo intorno al 3,5% l’anno - ha dichiarato nelle scorse settimane Luca Dondi, ad di Nomisma -. La congiuntura negativa deprimerà fino al 20% l’attività transattiva”. L’opzione di un’uscita a breve termine dal mercato, per reinvestire la liquidità ottenuta tra due/tre anni, quando sarà chiara l’entità dell’eventuale riduzione dei prezzi, può essere in alcuni casi la strada migliore, in particolare per i proprietari più dinamici. A patto di essere disponibili a vendere rapidamente a valori di mercato attuali, tramite strategie finalizzate alla più rapida conclusione dell’affare.
Autore: Marco Nebiolo 04 ago, 2020
Scrivi atipico e leggi “insolito”, “inusuale”, “diverso dallo schema della norma”. Eppure secondo giurisprudenza e dottrina, che hanno creato questa figura, il mediatore atipico è proprio l’agente immobiliare comune, che opera secondo la prassi standard: incarico del venditore, impiego della propria organizzazione aziendale per la commercializzazione, individuazione di un compratore, proposta d’acquisto etc. Perché questo professionista così familiare ai consumatori è “inusuale”, “insolito”, “estraneo allo schema della norma? Perché la figura di mediatore descritta negli art. 1754 e seguenti del codice civile ha ben poco a che fare con la prassi operativa dell’agente immobiliare professionale contemporaneo. Il mediatore ai tempi dei nostri nonni Secondo il legislatore del 1942 (cioè di 80 anni fa…) il mediatore è “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione dell’affare senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza”. Un battitore completamente libero, senza obblighi specifici di attivarsi per raggiungere il risultato, capace di favorire la conclusione di generici “affari” (non solo immobiliari quindi) mettendo in relazione, cioè facendo incontrare, le persone con interessi convergenti. Ma anche declinando tale definizione solo in riferimento al settore immobiliare, che è quello che da sempre porta con maggiore facilità le persone comuni in contatto con l’attività di intermediazione, è evidente che la definizione codicistica non poteva ispirarsi all’attività dalle agenzie che pullulano nelle strade delle nostre città. Semplicemente perché all’epoca non esistevano. Quella norma è stata scritta in un mondo completamente diverso. Un mondo senza computer, senza internet, senza telefonini. Un mondo in cui le informazioni non circolavano con la facilità che oggi diamo per scontata. Un mondo in cui chi voleva comprare casa non poteva scorrere le offerte sul tablet, né consultare i prezzi del Borsino immobiliare di zona. In quel mondo l’informazione su chi volesse vendere qualcosa e su chi volesse comprarla era rara, difficile da trovare, territorialmente radicata. Chi cercava un’informazione doveva recarsi in loco e cercarla presso le persone giuste. Bastava spostarsi nel paese a fianco per dover iniziare la ricerca da zero. Questo tipo di informazione aveva di per sé un valore enorme, perché consentiva un incontro tra domanda ed offerta altrimenti molto complicato. Di per sé era una patrimonio da valorizzare e l’attività che ne derivava andava giuridicamente tutelata per la sua funzione agevolatrice dello scambio di beni. Il sensale di vecchia memoria: libero e irresponsabile Il mediatore poteva essere il geometra del paese, il sindaco, il giornalaio. Non esisteva una legge che regolamentasse l’esercizio della professione. Nessun esame, nessun Ruolo in camera di commercio (non c’è più dal 2010, ma questa è un’altra storia…), nessuna incompatibilità. Era il “sensale” di vecchia memoria insomma. Sotto il profilo della responsabilità, il mediatore doveva solo comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla sicurezza e alla valutazione dell’affare (art. 1759 cc). Se – in buona fede - non sapeva nulla, nessuna responsabilità gli si poteva imputare. La circostanza di aver consentito alle parti di incontrarsi, in quel mondo dalle informazioni così rarefatte, esauriva la sua funzione. Socialmente e giuridicamente non gli si chiedeva nulla di più. (Nb: le scorie di questa impostazione culturale si possono rinvenire in sentenze della Cassazione anche piuttosto recenti, volte a circoscrivere i confini della responsabilità degli agenti immobiliari entro confini ormai troppo angusti per le aspettative dei consumatori. Ma questo tema sarà oggetto di approfondimento di altro post…). Dalla società agricola all’era della disintermediazione Da allora il mondo è cambiato. Siamo entrati nell’era dei servizi evoluti e della comunicazione. Quella del mediatore è diventata una vera e propria professione svolta tramite un’organizzazione aziendale più o meno complessa. L’era di internet, detta anche della “disintermediazione”, ha privato il mediatore del ruolo di “sacerdote della notizia” (le notizie sono facilmente pubblicabili e reperibili sui portali senza il necessario intervento dell’agente) e gli ha attribuito compiti più onerosi di garanzia della sicurezza dell’affare. Le persone - per lo più - si rivolgono all’agenzia non tanto perché non siano in grado di pubblicare un annuncio online o di cercare la notizia su internet, ma perché cercano nel mediatore un gestore professionale di un processo di vendita sempre più complesso e insidioso. Insomma di acqua sotto i ponti ne è passata in 80 anni, ma la normativa sulla mediazione contenuta nel codice civile è rimasta la stessa. L’agente immobiliare legato a doppio filo al venditore Il mediatore immobiliare di oggi è una figura completamente diversa dal sensale di paese che concludeva affari al tavolino del bar della piazza e che dopo aver fatto stringere la mano alle controparti si disinteressava di quanto avvenisse dopo. Da alcuni decenni opera - per lo più - mettendo in campo una vera e propria organizzazione aziendale, in forza di un incarico scritto del venditore, zeppo di clausole che lo vincolano saldamente al proprietario e che fanno deragliare il rapporto dallo schema legale della mediazione: clausole di esclusiva, previsione di penali, di obblighi reciproci etc. Altro che battitore libero tipizzato nel codice. Ed è proprio la regolamentazione contrattuale così minuziosa del rapporto venditore-mediatore, secondo giurisprudenza e dottrina, a determinare l’eccentricità del rapporto rispetto alla previsione normativa. Tale mediatore legato contrattualmente al venditore recupera formalmente una posizione di equilibrio tra le parti che giustifica la doppia provvigione solo se anche l’acquirente riconosce (per iscritto e per fatti concludenti) la sua attività di mediazione. Per questa ragione nelle proposte d’acquisto (o in accordi a latere) l’acquirente sottoscrive sempre un formale riconoscimento provvigionale a favore dell’agente immobiliare. In assenza di tale riconoscimento ex post, il mediatore - agli occhi dei giudici contrattualmente “sbilanciato” - potrebbe richiedere la provvigione solo al venditore, operando quindi come un mediatore “unilaterale”. (Non sfuggirà rispetto a questo schema giuridico l'illogicità della prassi commerciale di non far pagare la provvigione al venditore - colui che ha scelto il mediatore - e di ricaricarla sul compratore - che non lo ha scelto ma se lo ritrova "allegato" all'immobile: anche perché la provvigione, direttamente o indirettamente, ricade sempre sul venditore. Per un approfondimento sul tema vedi post precedente ). L'urgenza di una riforma La prassi operativa standard dunque è considerata atipica a causa della vetustà del codice civile. Una vetustà che emerge palese dal combinato disposto degli articoli 1754 cc (definizione di mediatore) e 1759 cc (responsabilità del mediatore) e che è alle base della maggior parte dei contenziosi tra clienti e agenti immobiliari. Quando la normalità sociale ed economica diventa atipica rispetto alla norma significa che la legge è sorpassata e che va modificata. Un segnale ineludibile dell’urgenza di una riforma legislativa che regoli la materia dell’intermediazione partendo dalla realtà sociale e tecnologica del 2020 e lasciandosi alle spalle la società agricola del 1942. Che contempli quindi, oltre all’intermediazione classica, le nuove forme di consulenza di parte, tipiche delle società di servizi più evolute, imponendo per legge standard professionali e deontologici più stringenti in linea con le attese dei consumatori.
Autore: Marco Nebiolo 20 lug, 2020
Non ci sono dubbi: l a provvigione è pagata sempre, ma proprio sempre, dal venditore . Anche quando (anzi soprattutto quando) ha concordato con il suo (si fa per dire…) agente immobiliare una provvigione bassissima o nulla. Come è possibile? Provo a spiegarlo. Caso 1: provvigioni pagate da entrambe le parti Il mediatore, secondo il codice civile, ha diritto di ricevere la provvigione da entrambe le parti, a suggello di un’opera prestata in posizione di imparzialità, cioè senza vincoli di collaborazione, dipendenza o rappresentanza con alcuna di esse (art. 1754 cc). Immaginiamo una casa il cui valore sia compreso tra 95.000 e 105.000 € e che il mediatore richieda € 3000 + iva a entrambe le parti. Se 100.000 corrisponde al budget massimo dell’acquirente, questo offrirà 100.000 -3600= 96.400 Il venditore incasserà € 96.400 – 3600 (la sua commissione) = 92.800. Alla fine il peso economico della provvigione (7200 €) ricade sul venditore per intero. Caso 2: provvigione pagata per intero (o quasi) dal compratore Nella realtà spesso sono i compratori a farsi carico della fetta più significativa delle commissioni d’agenzia. Questo avviene tutte le volte in cui l’agente immobiliare, incapace di far percepire il valore del proprio servizio, rinuncia alla provvigione come tecnica di acquisizione per ottenere l’incarico. Su internet se ne trovano a bizzeffe. Sono tutti sorridenti è proclamano “vendi casa senza provvigioni”! Il venditore pensa di aver fatto un ottimo affare affidando la commercializzazione a un professionista che lavora “gratis”. Ma si sbaglia. Anche in questo caso la commissione ricade sul venditore. Perché nella trattativa tra agente immobiliare e acquirente entrano in gioco meccanismi economici e psicologici di cui è necessario tener conto e che penalizzano il proprietario a sua insaputa. Nessun mediatore lavora gratis Se ci si riflette attentamente il fatto che la provvigione venga pagata anche dal compratore è intrinsecamente una stortura: il compratore si trova costretto a remunerare un agente che non solo non ha scelto (perché lui ha scelto l’immobile e con esso si è trovato “allegato” un agente), ma che nella maggior parte dei casi (meglio: quasi sempre) è stato addirittura incaricato dalla controparte, il venditore, che nella trattativa ha interessi opposti ai suoi. Inoltre sul compratore gravano già il prezzo d’acquisto, le tasse, il notaio. Fargli pagare anche la provvigione appare veramente un atto di accanimento, la cui incidenza psicologica va molto al di là dell’entità della commissione richiesta. Cosa intendo? Siccome nessuno lavora gratis (almeno nessuno che abbia un livello minimo di professionalità spendibile sul mercato), se il mediatore non viene pagato dal venditore, o viene pagato pochissimo, si rifarà necessariamente sull’acquirente, a cui chiederà un cifra superiore a quella consuetudinaria, compresa cioè tra il 4% e il 6% del prezzo. Le cose stanno così, che i venditori ne abbiano consapevolezza o meno. E questo acquirente, già gravato da tasse, notaio etc., che già non comprende fino in fondo perché debba pagare una provvigione “normale”, da quali risorse andrà ad attingere per pagare una provvigione così “gonfiata” a un professionista che non ha neppure scelto? La risposta è scontata: dal budget dedicato all’acquisto. Convergenza di interessi a discapito del venditore: ovvero meno paghi, più paghi L'eterogenesi dei fini rispetto ai programmi del venditore a questo punto è compiuta: l’agente sarà naturalmente portato a favorire il compratore, che per poter pagare la provvigione pretenderà di presentare una proposta d’acquisto ampiamente ribassata rispetto alle tue aspettative. Il cliente – già oberato da tasse, notaio, prezzo – dirà all’agente: “D'accordo, pago la provvigione richiesta, ma Lei se la deve guadagnare: deve farmi fare l’affare”. Tradotto: deve farmi accettare una proposta pesantemente ribassata. Gli acquirenti più scaltri conoscono bene questi meccanismi, e loro stessi spesso offrono di pagare una provvigione addirittura più alta di quella richiesta in cambio di uno sconto più elevato sul prezzo d’acquisto. Tornando all'esempio numerico di cui sopra, il cliente/acquirente per pagare un ipotetico 5% (che comprensibilmente percepisce come eccessivo…) proporrà all’agente di offrire un prezzo ribassato più del 5% + iva del costo della provvigione. Realisticamente di non offrire più di 90.000 €. Magari di provarci a 85.000 €. E quell’agente – che il venditore non paga, perché così crede di risparmiare – sarà naturalmente indotto a favorire la parte che lo remunererà, spiegando al proprietario che quella raccolta è la miglior offerta possibile, che il mercato risponde solo così, che quello è il miglior acquirente al mondo etc. Così il venditore, per risparmiare formalmente la provvigione, si trova a ricevere una consulenza non adeguata e a provocare inconsapevolmente una convergenza di interessi tra mediatore e acquirente che non può che penalizzarlo. E la sua “non-provvigione” gli sarà costata tra i 10.000 e 15.000 euro, invece di 7.200. Obiezione: "Basta che il venditore alzi il prezzo... ... ed ecco la provvigione se la paga nuovamente l'acquirente". Peccato che non funzioni così. Il ragionamento presuppone - un po' ingenuamente - che per spuntare una cifra più alta nella trattativa basti alzare il prezzo richiesto. L'acquirente formula offerte in base ai valori di mercato (che solitamente conosce in modo molto accurato), a ragionamenti tecnici dettagliati (quanto costa ristrutturalo, quanto renderà la locazione), alle specificità uniche di ogni immobile (quando esistono...), in base a sensazioni istintive provate durante la visita (se l'immobile è idoneo a provocarle). Mai in base al prezzo di richiesta del venditore, che, la contrario, più si discosta dai parametri di mercato in modo ingiustificato più diventa fattore di ostacolo alla conclusione dell'affare. Alla luce di suddette considerazioni, non sarebbe più intelligente investire una certa somma nel servizio di un consulente di parte pagato in esclusiva e che faccia i tuoi interessi in assoluta trasparenza? Che quando ti illustra una proposta d’acquisto sei certo che abbia trattato fino alla fine per ottenere il massimo? Che non sia sospettabile di “intelligenza con il compratore”?
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